La partecipazione attiva alla vita della società è una caratteristica fondamentale per poter definire la salute di una persona, eppure partecipare alla vita di una comunità può non essere semplice soprattutto per le persone portatrici di deficit cognitivi più o meno gravi (nei casi di ritardo mentale, per esempio), di disturbi pervasivi dello sviluppo (come l’autismo) e di sindromi genetiche (ad es. sindrome di Down).
Le persone con disabilità intellettive spesso non sono in grado di adattarsi e partecipare in ambiti quali il lavoro, l’educazione, lo svago e la partecipazione alla vita politica; hanno meno relazioni significative rispetto alle persone senza disabilità e sperimentano maggior solitudine.
Ma oltre a considerare i limiti individuali, possiamo ritenere che l’inclusione sociale sia il risultato dell’incontro tra i servizi che si occupano di persone con disabilità (ad esempio le strutture residenziali e i centri diurni) e la comunità locale in cui questi servizi sono collocati (che chiameremo “il vicinato”).
L’atteggiamento del vicinato nei confronti delle persone con disabilità è un fattore determinante per l’esclusione sociale, e che non può essere lasciato al caso o ignorato.
Ad esempio, il semplice scambio di saluti e il non essere ignorati dai vicini è per molte persone con disabilità intellettiva sufficiente per sentirsi parte di una comunità. Quando il vicinato ha atteggiamenti polemici nei confronti di queste persone oppure le ignora, non solo queste non si sentono accettate dalla società, ma iniziano a percepire il vicinato come minaccioso e di conseguenza anche le uscite sul territorio possono diventare più difficoltose, poiché cariche di tensione.
A questo si aggiunge anche il cosiddetto stigma interiorizzato, ovvero il sentimento penoso di inadeguatezza personale, associato a pensieri quali «se le persone mi ignorano è perché non valgo niente» oppure «se ce l’hanno con me è perché sono fatto in modo sbagliato».
Pertanto è bene sottolineare che collocare gli individui con disabilità intellettive all’interno di una struttura residenziale o far loro frequentare un centro diurno non assicura automaticamente l’inclusione.
A fare la differenza è la cultura professionale del servizio, la sua visione, l’atteggiamento del personale e la sua preparazione ed abilità nel favorire l’inclusione.
Il personale può quindi avviare iniziative formali per coinvolgere altre persone nel vicinato (ad esempio open day, feste, ecc…), oppure approfittare di contatti informali (ad esempio, una visita al bar o ad un negozio di alimentari) per facilitare il dialogo tra gli utenti del servizio e i membri della comunità, dialogo che poi può essere mantenuto nel tempo: ad esempio, entrando in un bar, un operatore può far notare ad un avventore abituale che legge la pagina sportiva di un quotidiano che anche il suo utente “Mario Rossi” è tifoso di calcio, da lì può avviarsi un piccolo scambio di battute che poi può continuare tutte le volte in cui Mario Rossi incontrerà di nuovo quella persona.
Oltre alle attenzioni dette, gli operatori dei Centri diurni e residenziali possono organizzare delle esperienze di vera e propria utilità sociale: progetti che favoriscano il protagonismo delle persone con disabilità intellettiva e che servano alla comunità, come consegnare la spesa a domicilio di un anziano del quartiere o adottare un amico a 4 zampe al canile municipale per una coccola e una passeggiata insieme.
Infine, determinante è il ruolo delle amministrazioni locali.
Da una parte, è fondamentale che le amministrazioni evitino quelle scelte politiche istituzionalizzanti che mirano a isolare le persone con disabilità intellettiva in zone remote o scoraggino uscite sul territorio e partecipazione a iniziative pubbliche per evitare di “disturbare” il vicinato. Ma, contemporaneamente, è necessario che promuovano iniziative di coinvolgimento pubblico, creando strutture ricreative accessibili a tutti, opportunità culturali fruibili e progetti di coesione sociale, che vadano a sensibilizzare la cittadinanza sui temi del diritti delle persone con disabilità.
La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità oggi definisce la disabilità non come un proprietà dell’individuo, ma come un rapporto tra i deficit individuali e la capacità dell’ambiente di accogliere o ostacolare la partecipazione delle persone alla società.
Quindi possiamo dire che l’accoglienza o la diffidenza del vicinato nei confronti delle persone con deficit intellettivi definisce il loro grado di disabilità; spetta ai servizi e alle istituzione favorire l’inclusione ed in un certo senso educare non solo i propri utenti, ma anche i membri della comunità a superare la diffidenza.
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